Ce la portiamo dentro una voglia matta di rivoluzione; la sogniamo la notte, la riesumiamo in decine e decine di discorsi stanchi, ma a voce alta; la piazziamo lì, al termine di accalorate e sgangherate analisi sociologiche, come unico esito possibile e auspicabile: ‘na rivoluzzioni ci vulissi! Ma è l’uso del condizionale (congiuntivo dialettale) che già ci iscrive nella schiera dei possibilisti, degli hobbisti della rivolta, dei ribelli della domenica. Nessuno che la indichi come precisa scelta programmatica, con data, ora, luogo; e se ci sarà la possibilità di una colazione a sacco, o magari ci si convenziona con una trattoria “rivoluzionaria”. La verità è che ci abbiamo perso un po’ la mano con il moto rivoluzionario; quello vero, sanguinolento, che occupa le strade e le piazze e che da noi spesso si traduce con termine appropriato “u buddellu”. Al liceo, nel periodo turbolento sessantottino, la frase intimidatoria più gettonata da celerini e professori era “uora picca buddellu!!”. Dal 12 gennaio del 1848, contro Ferdinando II di Borbone. sovrano delle Due Sicilie, non abbiamo fatto neanche un ripasso credibile. Al netto del moto garibaldino del maggio 1860, che in verità interessò solo quel migliaio di rosso vestiti, e altre fiammate sporadicamente forconiste, altre autentiche primavere dei popoli, in Sicilia, non ve ne sono state. Ora c’è un’altra parola di moda; dopo i riformismi e i trasformismi tanto cari ai democristiani e ai socialisti dalle “mani sporche”, oggi tutto sembra condurre verso l’unica vera possibilità di salvezza: l’Innovazione, che poi è una rivoluzione senza buddellu, un cambiare le cose senza ammazzare nessuno, una rivoluzione eco sostenibile. In pratica è sulla bocca di tutti, politici, industriali, artisti, allenatori di calcio, sacerdoti. Tutti si stanno dando l’orizzonte dell’innovazione come prossima scadenza. Il nuovo. Che già come sostantivo fa la sua porca figura, a prescindere. Perché come aggettivo, invece, deve trovarsi in posizione corretta; per liberare tutta la sua energia nuovista deve seguire e non precedere il sostantivo; il gesto nuovo non assomiglia manco lontanamente ad un nuovo gesto, assolutamente ordinario quanto insignificante. Le nuove parole interessano poco, non incantano e non coinvolgono come le parole nuove. Implicitamente, ad un esame superficiale, sembra si stia condannando a morte la tradizione, il tradizionale e tutto ciò che da esso ne deriva. Ma è proprio così?! Mi sovviene una massima, non nuova, di Remy de Gourmont “gli uomini sono tanto sciocchi che dando un nome nuovo a una cosa vecchia credono d'aver pensato e inventato una cosa nuova”. Cos’è veramente questa voglia diffusa di innovazione (senza rivoluzione, per carità)? La tradizione, con tutto il suo portato culturale e semantico, ricco di implicazioni che riguardano l’affidabilità, la competenza, la serietà, mantiene intatta la sua carica commerciale e pubblicitaria: dolcieri per tradizione...la pasta come tradizione vuole...il panettone tradizionale…Rimane pertanto da un lato una voglia inespressa, un desiderio di concetti già sperimentati, filtrati dall’impietoso setaccio del tempo e sedimentati nella nostra memoria; la tradizione che dà certezze, sicurezze. Dall’altro un’ansia innovatrice che ha stabilito il limite temporale della nostra esperienza e ne reclama a gran voce il superamento immediato. Una stanchezza di luoghi comuni, facce comuni, soluzioni comuni. Riusciamo contemporaneamente ad appassionarci ad un premier non ancora quarantenne, elogiando la sua carica giovanilistica, piena di inesauribile energia, ma ricordiamo con grandissimo affetto e immutata stima Sandro Pertini che fu a capo di questo Stato a quasi novant’anni; per non dire di Napolitano che, personalmente, reputo fra gli uomini politici più lucidi e concreti di questa epoca, e che per ben due volte sta ricoprendo la prestigiosa carica. Sembra un epoca in cui siamo attratti da due tensioni uguali e contrarie; il desiderio di superamento di un mondo antico che non ci rappresenta più e la constatazione che un mondo nuovo non è ancora arrivato. Se pensiamo che la più rappresentativa religione monoteista al mondo, quella cristiana, che per attaccamento alla tradizione non è seconda a nessuno, si permette il lusso di questi tempi di avere due papi, non c’è altro da aggiungere. Sono i tipici momenti dell’attesa, dell’Avvento. Assistiamo al tradimento di una tradizione che, proprio in virtù del suo perpetuarsi, è costretta a riformularsi, rigenerarsi, innovarsi, tradendosi. E restiamo insonni; svegli come pastori dentro un presepe con la testa in aria e la bocca aperta; in cerca della stella cometa; di un segno che ci indichi un luogo, un mondo nuovo, un nuovo nato, che parli con parole nuove, mentre addosso ci scuote la paura antica di perdere le nostre usuali parole, i nostri antichi e consunti significati. |