LE MIE PAROLE - IL MIO ARTICOLO

Torna indietro →


Editoriale pubblicato su: LE FATE ANNO II N.4 | aprile-maggio 2014
Ce la portiamo dentro una voglia matta di rivoluzione; la sogniamo la notte, la riesumiamo in decine e decine di discorsi stanchi, ma a voce alta; la piazziamo lì, al termine di accalorate e sgangherate analisi sociologiche, come unico esito possibile e auspicabile: ‘na rivoluzzioni ci vulissi! Ma è l’uso del condizionale (congiuntivo dialettale) che già ci iscrive nella schiera dei possibilisti, degli hobbisti della rivolta, dei ribelli della domenica. Nessuno che la indichi come precisa scelta programmatica, con data, ora, luogo; e se ci sarà la possibilità di una colazione a sacco, o magari ci si convenziona con una trattoria “rivoluzionaria”. La verità è che ci abbiamo perso un po’ la mano con il moto rivoluzionario; quello vero, sanguinolento, che occupa le strade e le piazze e che da noi spesso si traduce con termine appropriato “u buddellu”. Al liceo, nel periodo turbolento sessantottino, la frase intimidatoria più gettonata da celerini e professori era “uora picca buddellu!!”. Dal 12 gennaio del 1848, contro Ferdinando II di Borbone. sovrano delle Due Sicilie, non abbiamo fatto neanche un ripasso credibile. Al netto del moto garibaldino del maggio 1860, che in verità interessò solo quel migliaio di rosso vestiti, e altre fiammate sporadicamente forconiste, altre autentiche primavere dei popoli, in Sicilia, non ve ne sono state. Ora c’è un’altra parola di moda; dopo i riformismi e i trasformismi tanto cari ai democristiani e ai socialisti dalle “mani sporche”, oggi tutto sembra condurre verso l’unica vera possibilità di salvezza: l’Innovazione, che poi è una rivoluzione senza buddellu, un cambiare le cose senza ammazzare nessuno, una rivoluzione eco sostenibile. In pratica è sulla bocca di tutti, politici, industriali, artisti, allenatori di calcio, sacerdoti. Tutti si stanno dando l’orizzonte dell’innovazione come prossima scadenza. Il nuovo. Che già come sostantivo fa la sua porca figura, a prescindere. Perché come aggettivo, invece, deve trovarsi in posizione corretta; per liberare tutta la sua energia nuovista deve seguire e non precedere il sostantivo; il gesto nuovo non assomiglia manco lontanamente ad un nuovo gesto, assolutamente ordinario quanto insignificante. Le nuove parole interessano poco, non incantano e non coinvolgono come le parole nuove. Implicitamente, ad un esame superficiale, sembra si stia condannando a morte la tradizione, il tradizionale e tutto ciò che da esso ne deriva. Ma è proprio così?! Mi sovviene una massima, non nuova, di Remy de Gourmont “gli uomini sono tanto sciocchi che dando un nome nuovo a una cosa vecchia credono d'aver pensato e inventato una cosa nuova”. Cos’è veramente questa voglia diffusa di innovazione (senza rivoluzione, per carità)? La tradizione, con tutto il suo portato culturale e semantico, ricco di implicazioni che riguardano l’affidabilità, la competenza, la serietà, mantiene intatta la sua carica commerciale e pubblicitaria: dolcieri per tradizione...la pasta come tradizione vuole...il panettone tradizionale…Rimane pertanto da un lato una voglia inespressa, un desiderio di concetti già sperimentati, filtrati dall’impietoso setaccio del tempo e sedimentati nella nostra memoria; la tradizione che dà certezze, sicurezze. Dall’altro un’ansia innovatrice che ha stabilito il limite temporale della nostra esperienza e ne reclama a gran voce il superamento immediato. Una stanchezza di luoghi comuni, facce comuni, soluzioni comuni. Riusciamo contemporaneamente ad appassionarci ad un premier non ancora quarantenne, elogiando la sua carica giovanilistica, piena di inesauribile energia, ma ricordiamo con grandissimo affetto e immutata stima Sandro Pertini che fu a capo di questo Stato a quasi novant’anni; per non dire di Napolitano che, personalmente, reputo fra gli uomini politici più lucidi e concreti di questa epoca, e che per ben due volte sta ricoprendo la prestigiosa carica. Sembra un epoca in cui siamo attratti da due tensioni uguali e contrarie; il desiderio di superamento di un mondo antico che non ci rappresenta più e la constatazione che un mondo nuovo non è ancora arrivato. Se pensiamo che la più rappresentativa religione monoteista al mondo, quella cristiana, che per attaccamento alla tradizione non è seconda a nessuno, si permette il lusso di questi tempi di avere due papi, non c’è altro da aggiungere. Sono i tipici momenti dell’attesa, dell’Avvento. Assistiamo al tradimento di una tradizione che, proprio in virtù del suo perpetuarsi, è costretta a riformularsi, rigenerarsi, innovarsi, tradendosi. E restiamo insonni; svegli come pastori dentro un presepe con la testa in aria e la bocca aperta; in cerca della stella cometa; di un segno che ci indichi un luogo, un mondo nuovo, un nuovo nato, che parli con parole nuove, mentre addosso ci scuote la paura antica di perdere le nostre usuali parole, i nostri antichi e consunti significati.

Scarica il formato originale dell'articolo title=  


Torna indietro →

Rivista LE FATE

Sono stato coinvolto in questa avventura editoriale da Alina Catrinoiu, una ragazza rumena che ha scelto la Sicilia come sua patria d’elezione. Mi ha convinto dell’esigenza di mettere per iscritto e in buona grafia i nostri pensieri, i sogni, le visioni. Noi che, insieme a tanti altri, abbiamo deciso per la nostra Isola, non l’amore incondizionato, irrazionale, fanatico, nostalgico-folk, ma il rispetto per la memoria, il territorio, la cultura e le persone. Abbiamo messo insieme una squadra di donne e uomini (molte di più le donne, per la verità…qui c’è una quota azzurra che andrebbe sostenuta…), organizzati per macro-aree, la musica, l’arte, la letteratura, il cinema, la fotografia, la cultura d’impresa…e abbiamo dato forma grafica ai nostri desideri, alle nostre parole. Ho scelto il nome de Le Fate perché sono caratterialmente attratto dal mondo invisibile e dai suoi significati, e perché sono alla ricerca di quel mondo che a volte vedo distintamente. A volte appena sopra l’orizzonte, a volte sotto i nostri piedi. In ogni paese del mondo c’è un regno delle Fate, fra le pareti delle antiche caverne dimora di monaci bizantini…. o sulle ali delle farfalle che planano sulle zagare degli aranci in primavera; tra i labirinti di luce di un antica masseria con le finestre ferite dal vento o sulle lingue di fuoco che ardono nei rosari delle donne in preghiera. Nelle rime di una filastrocca urlata dai carusi per la strada, o nei sospiri di una ninna-nanna a una picciridda ccu l’occhi sbarati tanti che non vuole dormire Oggi le abbiamo dimenticate, ma non per questo Le Fate non esistono. Soltanto i sogni, talvolta, ne danno testimonianza. Nello stato di semi-coscienza tornano a popolare i nostri pensieri, ci consolano, leniscono le ferite del giorno con le loro carezze. Ma riappaiono anche ad occhi aperti, quando la fervida speranza nella nostra memoria le svela da un arcaico silenzio; e allora ecco che languide melodie si librano, se le sai ascoltare, intonate dal sospiro del loro volto pallido. Non aver paura, non aggrottare le tue ciglia, non porti inutili domande; accoglile senza remore. Loro sono delicate e molto discrete, potrebbero fuggire per non tornare mai più.

Maggiori info